di Giorgia Mantovani e Martina Lucia (2D)
“He eats nothing but doves, love, and that breeds hot blood, and hot blood beget hot thoughts, and hot thoughts beget hot deeds, and hot deeds is love” (1).
William Shakespeare is considered the most important English writer and he is generally considered the most authoritative playwright of Western culture.
Il suo è sempre stato un teatro per tutte le fasce sociali. Un teatro che appassionava e accomunava in uguale modo sia il ricco che il povero e che era capace di parlare a entrambi con la stessa efficacia. Il linguaggio shakespeariano manifesta la sua universalità e quotidianità, anche nei riferimenti al cibo inseriti nei dialoghi delle sue opere: roasted eggs and cheese, garlic and strawberries, doves and boars, not to mention beer and wine. A proposito di piccioni (doves) ne “il Mercante di Venezia” si ha la prova che nel ‘600 essi fossero considerati un prodotto gastronomicamente molto pregiato: “I have here a dish of doves that I would bestow upon your worship” (2).
Spesso nelle tragedie, così come in molte sue commedie, si parla di cibo. Un tema tra i più ricorrenti e misteriosi. I piatti scelti dal drammaturgo non sono, infatti, mai casuali, ma nascondono importanti metafore che aiutano lo spettatore a comprendere ed apprezzare le sue opere. Ogni piatto viene nominato per una ragione precisa e nasconde un chiaro riferimento comico, politico, sociale. Un pasticcio può sottintendere la vendetta; un banchetto, l’amore; un bicchiere di vino, gli eccessi della classe politica. Il personaggio malvagio viene spesso definito ‘rotten apple’ (mela marcia), mentre la ‘human kindness’ (l’umana gentilezza) viene rappresentata attraverso il latte.
Dalle cronache del tempo risulta che durante le rappresentazioni teatrali gli spettatori mangiassero con piacere e che Shakespeare, pur guadagnando bene con i proventi delle sue opere teatrali, incrementasse il suo bottino organizzando banchetti e buffet. Durante gli spettacoli i più abbienti degustavano dolci ricercati e costosi, magari a base di nocciole, mentre i più poveri mangiavano noci ed ostriche. Si trovano riferimenti alle nocciole ne “La bisbetica domata”, dove Petruchio dice che Kate “like the hazeltwig, is straight and slender and as brown in hue as hazelnuts and sweeter than the kernels” (3), e in “Romeo e Giulietta”, in cui Mercuzio descrive il carro della regina Mab affermando che è fatto da “an empty hazelnut made from the joiner squirrel or old grub”(4).
Ai tempi di Shakespeare le abitudini alimentari erano molto diverse a seconda della classe sociale. Aristocratici e re avevano un’alimentazione decisamente differente da quella dei contadini o degli artigiani. Se i ricchi avevano a disposizione una quantità di cibo notevole, i poveri erano spesso vittime di carestie.
Sulla tavola di un nobile si potevano trovare senza problemi carne, soprattutto di manzo o di cervo, e pane bianco, alimenti considerati di alto livello, molto costosi e, quindi, accessibili soltanto da una parte della popolazione. Prima che le truppe vadano in battaglia in “Enrico V” si consiglia di dare loro “great meals of beef and iron and steel” (5) perché in questo modo “mangeranno come lupi e combatteranno come diavoli”. In “Cimbelino”, invece, Belario afferma che chi colpisce per primo la carne di cervo sarà il signore del banchetto” (“he who strikes the venison first shall be the lord o’ the feast”).
Per aromatizzare la carne si utilizzavano alcuni trucchi, come intrappolare gli uccelli e nutrirli con erbe aromatiche, affinché fossero più gustosi, o aggiungere sapori come iris, pepe o aglio. L’aglio era molto utilizzato all’epoca dei Tudor, ma Shakespeare non ne parla in modo entusiastico nelle sue opere. In “Enrico IV” Hotspur fa riferimento ad un uomo talmente noioso che avrebbe preferito vivere “with cheese and garlic in windmill far” (6) piuttosto che discutere con lui. In “Sogno di una notte di mezza estate” Bottom esorta gli attori a non mangiare “onions or galic, for we are to utter sweet breath” (7).
Nelle case più povere, invece, si mangiava frutta e verdura rigorosamente di stagione, pane nero, porridge, zuppa e radici, raramente carne. Per la maggior parte delle volte il loro pasto era costituito da pane e vegetali, come cavolo cappuccio e rape, o frutta come mele, pere e more.
Negli scritti di Shakespeare e dei suoi contemporanei emerge una chiara diffidenza nei confronti della frutta e della verdura, soprattutto se consumate crude, perché si credeva facessero male e fossero difficili da digerire. Se proprio la frutta doveva essere mangiata, era meglio non eccedere e, comunque, era bene evitarne il consumo a stomaco pieno. In “Amleto” Polonio fa riferimento alla moda francese di mangiare la frutta al termine del pasto: “My news shall be the fruit to that great feast. All right, but first let the ambassadors speak. Then you can hear my news, as dessert” (8). Sembra probabile che, paragonando le notizie di Polonio alla frutta, Shakespeare voglia suggerire che, proprio come la frutta consumata a fine pasto, le notizie di Polonio non saranno salutari (Polonio sosterrà, infatti, di aver scoperto la causa della pazzia di Amleto).
Ci sono numerosi riferimenti alla frutta nelle opere di Shakespeare e, generalmente, se ne parla in termini non esaltanti, se non spregiativi. Nel “Mercante di Venezia”, ad esempio, Antonio accoglie la morte per mano di Shylock paragonandosi al ‘frutto più debole’ (‘the weakest fruit’, atto 4, scena 1), mentre in “Come vi piace” Touchstone parla dei versi di Orlando come di ‘frutti schifosi’ (‘bad fruits’, atto 3, scena 2), tanto per citarne alcuni.
Un’eccezione sembrerebbe essere fatta da Shakespeare per le fragole. In “Enrico V” si può leggere che “the strawberry grows underneath the nettle” (9), per rappresentare che qualcosa di dolce e virtuoso poteva essere coltivato sotto qualcosa di appuntito e aggressivo. In “Riccardo III” il vescovo di Ely sembra preoccupato di regalare alcune fragole che erano state inviate dal conte di Gloucester. Gloucester dice “when I was last in Holborn, I saw good strawberries in your garden there. I do beseech you send for some of them” (10). È come se Shakespeare prediligesse mangiare fragole rispetto ad altri tipi di frutta, tanto da utilizzarle come simbolo di dolcezza e purezza. E come potremmo dargli torto!
Ora è tempo di lasciarvi, perché tutto questo parlare di cibo ci ha fatto venire fame. We are hungry! So, let’s run to the table and remember that “tis an ill cook that cannot lick his own fingers” (11).
Enjoy your meal!
Note
- “Non mangia che colombe l’amore, e ciò genera sangue caldo, e il sangue caldo genera caldi pensieri e i caldi pensieri generano calde azioni, e le calde azioni sono l’amore”. Troilo e Cressida
- “Ho qui un piatto di piccioni che vorrei sottoporre a Vossignoria”. Il Mercante di Venezia
- “Come il ramoscello della nocciola, è diritta e snella e di colore marrone come nocciole e più dolce dei noccioli”. La bisbetica domata, atto 2, scena 1
- “Una nocciola vuota fatta dallo scoiattolo falegname o dalla vecchia larva”. Romeo e Giulietta, atto 1, scena 4
- “Dai loro ottimi pasti a base di carne di manzo, ferro e acciaio”. Enrico V, atto 3, scena 7
- “Formaggio e aglio in un mulino a vento lontano”. Enrico IV, atto 3, scena 1
- “Cipolle o aglio, perché dobbiamo pronunciare un alito dolce”. Sogno di una notte di mezza estate, atto 4, scena 2
- “Le mie notizie saranno la frutta a quel grande banchetto. Va bene, ma ora prima lasciamo che gli ambasciatori parlino. Poi potrete udire le mie notizie, come dessert”. Amleto
- “La fragola cresce sotto l’ortica”. Enrico V, atto 1, scena 1
- “L’ultima volta che sono stato a Holborn, ho visto delle fragole buone nel tuo giardino. Ti supplico di mandare a prenderne alcune”. Riccardo III, atto 3, scena 4
- “È un cattivo cuoco quello che non sa leccarsi le dita”. Romeo e Giulietta