di Rita Germano (3G)
Era il 1950 quando mio nonno si trasferì in una grande città del Nord Italia per andare a lavorare in una fabbrica. Era solo e una delle prime persone che incontrò, una volta arrivato lì, fu la mia attuale nonnina, che oggi ha oramai più di settanta anni. Quando i miei nonni mi raccontano di quegli anni hanno ancora gli occhi innamorati, lucidi ed emozionati.
All’epoca il Sud era molto arretrato e mio nonno proveniva da una città che ne faceva parte, Napoli. Cresciuto tra mafia e traffici illeciti, fin da ragazzino era vissuto in un quartiere malfamato. Per fortuna, però, all’età di diciotto anni riuscì a guadagnare qualcosina e ad andarsene da Napoli. Si trasferì a Salerno e lì trascorse ben dieci anni; poi decise di trasferirsi a Torino. A quell’epoca il Nord era molto più avanzato del Sud a livello economico, per questo mio nonno riuscì a trovare facilmente lavoro in una fabbrica. Qui fece amicizia con molti suoi coetanei e si trovò molto bene; guadagnava il giusto per vivere, ma per colpa di qualcun altro rischiò più volte di perdere il posto.
A quei tempi c’era un grande movimento migratorio dal sud verso il nord: siciliani, pugliesi, calabresi, campani e lucani cercavano migliori condizioni di vita. Mio nonno non smetteva di lavorare e un giorno conobbe “Zio Gianchi”, così veniva soprannominato, che divenne il suo migliore amico e lo è tuttora; ebbene sì, una lunga e forse eterna amicizia. Zio Gianchi era semplicemente unico: anche lui era un emigrato meridionale e fino a poco tempo prima risiedeva a Salerno; poi anche lui, come mio nonno, decise di trasferirsi a Torino per trovare lavoro insieme a sua figlia. Sua moglie purtroppo era volata in cielo qualche anno prima e lui, con il suo lavoro nella fabbrica, riusciva a far mangiare la sua piccolina. Aiutò moltissimo mio nonno, proprio perché Zio Gianchi aveva più esperienza, soprattutto con la catena di montaggio, uno strumento che aveva sostituito le fatiche della terra.
Nuovi emigranti entravano a far parte della fabbrica, gli stipendi aumentavano ed erano fissi. Torino assunse i contorni di una realtà capace di offrire case e lavoro. Però c’erano anche i lati negativi: venivano affissi ai portoni delle case cartelli arrecanti la frase <NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI>, oppure termini inappropriati per screditare i nativi del Sud. Soprattutto la stampa alimentava, attraverso articoli e stereotipi, i pregiudizi nei confronti degli immigrati del Sud Italia e purtroppo mio nonno spesso era vittima di queste discriminazioni.
Un giorno, tra i tanti nuovi lavoratori che ogni giorno arrivavano c’era proprio lei, mia nonna Antonietta. All’epoca aveva 29 anni, una bellissima donna, single ed originaria di Salerno. Questo interessava a mio nonno, quando per la prima volta i loro sguardi si incontrarono; in quel momento tutto era scomparso, c’erano solo quei due giovani operai che, nonostante tutto, credevano ancora nell’amore. Mio nonno ricorda perfettamente quel giorno: mia nonna aveva i capelli raccolti con una ciocca che le pendeva al lato della fronte, indossava una semplice maglietta e dei semplici pantaloni, era…semplice. Anche lei, grazie al lavoro nella fabbrica, riuscì a guadagnare qualche moneta in più. Mio nonno se ne innamorò subito; il problema era che non riusciva a parlarle, ma grazie al supporto di Zio Gianchi lo fece e, da quel momento, nacque il loro amore. Riuscirono a trovarsi, con molta fatica e molti sacrifici, una piccola casetta, dove tutt’ora risiedono. Hanno avuto due figli, mia madre e mio zio, e poi un nipote, che sono io.
Beh, come si suol dire: “Tutto è bene quel che finisce bene”.