di Giorgia Mantovani (2D)
Per scienza si intende “l’insieme delle discipline fondate essenzialmente sull’osservazione, l’esperienza, il calcolo, o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, e che si avvalgono di linguaggi formalizzati” (dizionario Treccani).
Nella definizione sopra riportata non si fa riferimento al sesso, all’età o alla nazionalità di chi si occupa di quelle discipline. La scienza, infatti, non fa distinzioni tra giovani e anziani, tra italiani e stranieri, tra maschi e femmine. «La scienza è per tutti», afferma Fabiola Gianotti, prima donna a dirigere il Cern, il più grande laboratorio scientifico del mondo, e il primo scienziato a vedersi confermato il mandato.
Per secoli, tuttavia, quello della scienza è stato un mondo fatto di soli uomini, a causa di pregiudizi e luoghi comuni, che anche oggi fanno fatica a scomparire. In base ad uno di questi preconcetti le donne sarebbero poco portate per natura allo studio scientifico. «Dire che la scienza non fa per le donne è falso: non ci sono lavori per uomini e lavori per donne”, chiarisce Fabiola Gianotti, e le sue parole trovano conferma nei tanti esempi di scienziate che con le loro teorie, ricerche e scoperte hanno contribuito in modo significativo al progresso dell’umanità. Rita Levi Montalcini, Marie Curie, Margherita Hack, Lise Meitner, Ada Lovelace, Dorothy Crowfoot Hodgkin, Rosalind Franklin, Emmy Noether, Hedy Lamarr, Mileva Maric, Maryam Mirzakhani sono soltanto alcune delle grandi donne che “ce l’hanno fatta”, ma l’elenco è davvero lungo!
Se, però, sono tante le donne che sono riuscite ad imporsi nei rispettivi campi, occupando un posto di riguardo nel panorama scientifico mondiale e a farsi rispettare e stimare dai colleghi maschi, molte altre hanno contribuito a scoperte sensazionali o svolto un ruolo decisivo nei team di ricerca, rimanendo, loro malgrado, nell’ombra. Di molte di loro si sa ben poco o, addirittura, nulla. Il loro lavoro, spesso, non è stato riconosciuto ed il loro nome non è stato tramandato alle generazioni future. I meriti, e anche i premi, se li sono presi altri luminari, tutti uomini!
Una delle scienziate “dimenticate” è Jean Purdy, considerata pioniera del trattamento della fertilità. Nata a Cambridge nel 1945, dove cresce, studia e si forma professionalmente come infermiera, nel 1968 diventa assistente presso il Laboratorio di Fisiologia di Robert Edwards. Di lei non sappiamo molto, ma sembra sia suo il merito di aver raccolto le annotazioni delle attività cliniche e di laboratorio dal 1969 al 1978, anno in cui nell’ospedale di Kershaw’s Cottage, vicino a Oldham, vede la luce Louise Brown, la prima bambina nata grazie alla fecondazione in vitro. L’evento è merito di tre studiosi: il biologo Robert Edwards, il chirurgo Patrick Steptoe e, appunto, l’embriologa e infermiera britannica Jean Purdy. Eppure, malgrado le sue capacità professionali, la sua dedizione al lavoro, il notevole contributo che diede alla scoperta e nonostante le vivaci proteste del collega Edwards, nella targa che celebra questa rivoluzionaria tecnica ci sono solo due nomi: Edwards e Steptoe. I due uomini! Poco, anzi nulla, è importato alle autorità sanitarie locali che il ruolo dell’embriologa sia stato centrale per la riuscita dell’evento. Lo stesso Edwards, insignito nel 2010 del premio Nobel per la Medicina proprio per questa scoperta, lo riteneva «cruciale». Lei si occupava della gestione del laboratorio, della registrazione dei dati, della preparazione dei terreni di coltura, del monitoraggio dei parametri chimici e fisici degli stessi e di tutta la strumentazioni in uso. Il suo compito era quello di osservare attentamente ed in maniera critica spermatozoi, ovociti ed embrioni, valutarne lo sviluppo e lo stadio embrionale e far sapere ai due colleghi quando questi fossero pronti per il trasferimento. A detta di Edwards, Jean è stata «la prima persona al mondo a riconoscere e descrivere la formazione delle blastocisti umane precoci, nonché testimone assoluta della divisione cellulare dell’embrione che ha dato vita a “Lovely Louise”». Eppure, lo ripeto, nella targa che celebra quella rivoluzionaria tecnica non è riportato il nome di Jean Purdy, in quanto donna. Solo nel 2015, tardivamente, verrà resa giustizia a questa instancabile lavoratrice, come tutti la ricordano, e verrà finalmente aggiunto il suo nome a quello dei suoi colleghi nella targa che commemora la prima bambina nata grazie alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Il riconoscimento è importante perché dichiara al mondo i meriti dell’infermiera di Cambridge, ma è arrivato, purtroppo, postumo. Jean Purdy è morta, infatti, di cancro il 16 marzo 1985, a soli 39 anni. Otto giorni prima, l’otto marzo, era caduta la ricorrenza della festa delle donne, nata per ricordare le lotte sociali e politiche che le donne hanno dovuto affrontare, affinché la loro voce venisse ascoltata. Se oggi le donne possono indossare i pantaloni, andare a scuola, a votare, a lavorare ed essere indipendenti è proprio grazie alle ribellioni che esse in passato hanno portato avanti per affermare i propri diritti e conquistare un ruolo di primo piano nella società.
Alle donne “dimenticate”, come la scienziata Jean Purdy, dedico il mio mazzolino di mimosa, dal 1946 simbolo di questa festa e di tutte le conquiste sociali che essa rappresenta contro ogni forma di discriminazione e violenza.
La lotta delle donne per veder riconoscere le proprie capacità non finirà mai. Articoli come questo invitano a riflettere in modo intelligente e pacato su questa lotta infinita che si consuma ogni giorno, non solo sui banchi della Scienza. L’argomento è trattato in modo avvincente. I riferimenti a fatti precisi lo rendono molto incisivo.